Istanbul: quel che resta di Gezi

Incontro Tayff Akmal a pranzo in un bar di Ortaköy, uno dei quartieri di Beşiktaş, sulla sponda europea del Bosforo e all’interno del comune metropolitano di Istanbul (il bizantinismo della geografia è un’eredità storica…). Ha 24 anni, studia all’università di Istanbul e fa parte del “Collettivo per l’Educazione Libera” (Özgür Eğitim Platformu), una piattaforma indipendente che promuove momenti di formazione ed educazione al di fuori del circuito scolastico statale. Lui a Gezi Park durante i giorni caldi della protesta c’era. «In quei giorni abbiamo costruito legami forti, che sono rimasti vivi anche dopo lo sgombero».

Non c’è più un luogo fisico, ma è come se quel seme, tolte le violenze, continuasse a germinare sotto la cenere, lungo un tessuto diffuso in tutta la città, in tutto il Paese. «Dopo lo sgombero di Gezi Park, le persone hanno iniziato a incontrarsi in altri parchi cittadini. Sono 47 i forum che sono stati portati avanti con regolarità nella sola città di Istanbul», racconta Tayff.
In altri parchi come ad Abassaga a Besiktas – uno dei distretti più attivi -, a Cihangir e in quello di Yoğurtçu, ma anche a Kadıköy, sulla riva anatolica, ci si continua a incontrare, a discutere, a progettare, a individuare metodi per arrivare a strutturare forme di rappresentanza più diretta per le diverse decisioni che riguardano la città. E non solo. Ci si interroga sul futuro della propria zona, del proprio quartiere, e inevitabilmente ci si trova a parlare del futuro del Paese, sullo sviluppo della democrazia nella Repubblica turca, resistendo alle crescenti pressioni di coloro che invece supportano il governo e l’onnipresente AKP (Partito per la giustizia e lo sviluppo), il partito del premier Taypp Erdogan. E che non vedono di buon occhio questa protesta tutt’altro che silenziosa.

Visto dall’Europa “in crisi”, quanto accade a Istanbul è per certi versi incomprensibile. La Turchia, paese che ha la più alta percentuale di giovani sotto i trent’anni d’Europa, è infatti una success story non solo per i dati economici arrembanti, ma anche per le sfide democratiche che ha saputo affrontare in questo ultimo decennio. Che l’anno portata fin sulla soglia dell’Unione Europea.

Chi protesta però non mette in discussione tanto i risultati, quanto le modalità attraverso le quali sono stati raggiunti. Mancanza di partecipazione, è l’accusa diffusa (al di là del momento elettorale, ovvio); maggiore coinvolgimento nella vita politica e sociale, così come nelle decisioni a livello locale è invece la richiesta. In questo senso, le mille facce del movimentismo turco non sono per niente diverse da quelli di altre realtà, dall’Europa (vedi Spagna) al Nord Africa, fino al Brasile.
Il carattere di Istanbul è quello di uno storico hub commerciale, dove però il livello di disoccupazione giovanile nel 2012 ha toccato quasi il 20 per cento (dati Eurostat). Anche per questa ragione i movimenti di protesta hanno un carattere trasversale, non sono guidati da un partito politico o da una determinata corrente ideologica o religiosa. «Hanno partecipato associazioni di categoria, sindacati, studenti, lavoratori, liberi professionisti, ultras delle tre squadre di calcio della città, accademici e giornalisti». Bade Kaya e Cemre Şen lavorano per una giovane agenzia che si occupa dell’organizzazione e della promozione di eventi musicali. Roba lontana dalla politica, insomma, eppure lo spirito di Gezi scalda anche i loro discorsi. Sono sedute all’ombra di grandi alberi sugli sgabelli di un bar appena fuori dal parco Abassaga. «Questo aspetto, questa frammentazione che a prima vista può sembrare una debolezza, è invece uno dei punti di forza del popolo di piazza Taksim. A urlare il proprio dissenso in faccia al governo c’erano tanti gruppi diversi tra loro e altrettante ragioni». Un caleidoscopio di realtà che mette insieme anche movimenti che in condizioni normali non avrebbero molto da condividere e in qualche caso potrebbero trovarsi addirittura su fronti opposti. Can Ustundag ha 29 anni e si occupa di comunicazione e pubbliche relazioni per l’azienda di famiglia. Lei, con diversi suoi amici, è andata a Gezi per manifestare, ed è rimasta coinvolta negli scontri. Ci incontriamo in un bar di Sıraselviler Caddesi, una lunga via che arriva fino a piazza Taksim.

Qui, a inizio giugno, i lacrimogeni della polizia hanno sorpreso i clienti seduti ai tavoli nel cortile interno, dopo che alcuni manifestanti si erano rifugiati nel locale per trovare riparo dagli scontri. Can vive di contatti con i media, ed è sull’atteggiamento dei media turchi durante i giorni della protesta che si sofferma.

«Quando a maggio sono iniziati gli scontri più duri tra polizia e manifestanti i media turchi non hanno offerto un’informazione completa, in molti casi non hanno dato adeguato peso alle notizie», inizia, cauta. Persino i sostenitori del partito al governo hanno contestato questa specie di censura. «Sembra uno scherzo, ma è vero: durante gli scontri, sulla tv nazionale andavano in onda documentari sui pinguini…». Aneddoti su come radio e tv, non solo statali, abbiano scelto «programmazioni alternative» rispetto a raccontare quanto stava avvenendo in città non mancano. Restano i numeri: oggi ci sono più giornalisti arrestati in Turchia di quanti ce ne siano in Cina o in Iran. E che per Erdogan l’informazione libera sia una preoccupazione lo conferma anche l’atteggiamento nei confronti dei social media, etichettati come “una minaccia per la società”, tanto che a Izmir 29 persone sono finite agli arresti per altrettanti tweet giudicati violenti.

Basta percorrere la strada che collega l’aeroporto a Istanbul per avere un’idea forte della trasformazione che la città sta subendo. Gru, mega ponteggi e scheletri di grattacieli in costruzione fanno capolino su molte delle colline ai margini di questa enorme città da 13 milioni di abitanti. Interventi – questa la tesi della protesta – attraverso i quali Erdogan intende ridisegnare non solo l’urbanistica della città, ma anche la sua geografia sociale. Per esempio, la spianata per le parate in progetto nella periferia sud, le nuove residenze di lusso nei quartieri tradizionali di Tarlabasi e Kağithane, il terzo ponte sul Bosforo, il più grande aeroporto del mondo, la più grande moschea del Paese….
Obiettivo dichiarato: celebrare nel 2023 il primo centenario di vita della repubblica turca fondata da Mustafa Kemal Atatürk, consacrando attraverso il battesimo della nuova Istanbul il successo del modello Erdogan, che si candida come degno successore del leader fondatore della patria. Un modello celebrativo-faraonico che però non prende assolutamente in considerazione l’altra anima della città. Quella che vorrebbero, e che stanno in parte costruendo, quelle centinaia di migliaia di under 30 che negli ultimi anni hanno vissuto Istanbul come polo d’attrazione e d’innovazione, per una rivoluzione a-ideologica. A Istanbul negli ultimi cinque anni sono nate decine di start-up nei settori dell’e-commerce, del mobile e delle energie rinnovabili. Sono stati lanciati incubatori d’impresa anche all’interno delle università per supportare giovani imprenditori e freelancer. Sono nate piattaforme di counseling online per lo scambio di conoscenza e per la creazione di una rete di business fra imprese ad alto potenziale e imprese nascenti. Nella “visione” di Erdogan tutto questo mondo non trova spazio. Così, se l’è cercato altrove. A Gezi, per esempio.

Sara Chiodaroli è un’italiana che vive ad Istanbul da poco più di un anno. Subito dopo essersi trasferita ha iniziato ad insegnare in una scuola superiore e dopo cinque mesi si è trovata dietro la cattedra alla Bilgi University, un’università privata, dove insegna italiano e spagnolo. «L’argomento politica tra i ragazzi a scuola è ancora tabù. Se parlando con i miei studenti si capita sul tema, la prima reazione è l’imbarazzo». Sara vive a Nurtepe, nel quartiere Kağıthane, che negli ultimi cinque anni è cambiato molto. Molti degli edifici abusivi costruiti dagli immigrati provenienti dall’Anatolia centrale sono stati acquisiti dalla municipalità e convertiti in aree residenziali. Anche qui ci sono state proteste che non avevano punti di contatto con quanto accade oggi in piazza Taksim, ma che partono dallo stesso malessere e dalla stessa voglia di maggiore partecipazione alle scelte civiche. È interessante ascoltare il punto di vista di Sara in un chiosco di fronte alla splendida İstanbul Üniversitesi, una delle oltre 40 università della città, in piazza Beyazıd. Dai suoi occhi traspare curiosità, quella di chi sta scoprendo una realtà e ne viene spesso sorpresa: «Questo non è un paese laico per tutti. Ci sono due Turchie che stentano a comunicare tra loro. Ci sono forti divisioni, le stesse che notavo in Italia nei confronti di chi viene da un altro Paese. Solo che qui succede fra connazionali. In un contesto simile, le proposte di Erdogan come l’interruzione della vendita di alcolici nei negozi dalle 10 di sera alle 6 di mattina o le leggi contro l’aborto sono state percepite come decisioni non richieste da quella metà del Paese che, in ultima analisi, vuole restare.